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Il pollo broiler

Sapete cos’è un pollo broiler? Quasi nessuno lo sa, ma quasi tutti lo mangiano.
Il pollo broiler, detto anche pollo da carne, (broiler significa griglia dunque pollo da griglia) è stato creato attraverso anni di selezioni genetiche a cui diede inizio un agronomo statunitense cinquant’anni fa per andare incontro alle esigenze di un mercato che chiedeva sempre più pollo.
Serviva un pollo che crescesse in fretta, preferibilmente con un petto più grande (che era ed è la parte più richiesta), e che rimanesse il meno possibile in allevamento.
Serviva una soluzione, e qualcuno l’ha trovata. 
Così, anno dopo anno, selezione dopo selezione, si è arrivati ai polli broiler “a rapido accrescimento”, che in 30-40 giorni dispongono già di un petto e delle cosce gonfie, che possono essere vendute sul mercato a un prezzo ridotto.
In 50 anni il tasso di crescita giornaliero di questo tipo di pollo è aumentato del 400%.
Un animale allevato tradizionalmente, per fare un esempio, a 4 mesi di età arriva a pesare 1,2 kg, massimo 1,5 kg: il pollo broiler, in appena 45-50 giorni di vita, arriva a pesarne quasi 3 kg.
Questo tipo di polli, o forse sarebbe meglio chiamarli pulcini giganti, vive fra i 40 e i 60 giorni. Questo comporta per loro una serie di sofferenze atroci, prima di arrivare alla morte, ma permette a noi di mangiare carne di pollo a prezzi decisamente stracciati.
Come vengono allevati i polli broiler? Niente gabbie, ma in compenso capannoni sovraffollati. La crescita accelerata, favorita da mangimi ultra energetici, fa sì che le zampe di questi esemplari non riescano a sorreggere il loro peso, cosa che impedisce spesso agli stessi polli di spostarsi per bere e mangiare e causa fratture e rotture di ossa. Preda delle malattie anche se vengono vaccinati immediatamente, non vedono praticamente mai la luce del sole, ma vivono in una condizione di ventilazione e illuminazione forzate.

Tralasciando la tragicità della vita di questi animali e l'enorme inquinamento provocato dagli allevamenti intensivi, le conseguenze del consumo di questo tipo di animali hanno un impatto importante anche sulla nostra salute. È stata la stessa EFSA, l'Autorità europea per la sicurezza alimentare dell'Ue, a confermare, ormai diversi anni fa, che la carne di pollo prodotta da allevamenti intensivi crea problemi alla salute umana
Ma il peggio deve ancora venire perché nel mondo, dovete sapere il 90% dei polli allevati nel mondo sono broiler, e rimanendo in Italia, il 98% provengono da allevamenti intesivi e sono broiler.

Nel febbraio 2023 la Commissione UE ha riconosciuto che l’allevamento dei polli broiler a rapido accrescimento è problematico ma ad oggi ancora nessuna decisione in merito è stata presa.

Come fare quindi per riconoscere il pollo broiler ed evitare di comprarlo?
La soluzione migliore è sempre affidarsi a un macellaio di fiducia, che fornisca informazioni sulla provenienza nonché sui metodi di allevamento delle sue carni.
E per coloro che non hanno questa possibilità?
Purtroppo i polli broiler non hanno un marchio che mi metta in "evidenza" rispetto altri polli, ma ci sono degli elementi da osservare per evitare questo tipo di acquisti.

1. Per prima cosa, bisogna sempre leggere bene l'etichetta, dove sono riportati varie informazioni: oltre a taglio, peso, data di scadenza, provenienza e le eventuali certificazioni.

2. Preferire sempre animali allevati con metodo biologico, ove possibile, o provenienti da allevamenti all’aria aperta.
3. Se lo si compra intero, osservare le dimensioni di petto e cosce: devono essere proporzionati al resto del pollo e non eccessivamente grandi. Un petto molto gonfio e largo è il segnale che si tratta di un pollo allevato intensivamente.

4. Sempre se lo si compra intero, il peso è un elemento fondamentale: i polli di allevamento di alta qualità dovrebbero avere un'età compresa fra i 3  e i 4 mesi di vita e un peso che va dal kg al 1,4 kg. Il pollo ruspante, invece, dovrebbe pesare fra 1,2 kg e i 2 kg.

5. La carne deve essere soda, rosea (o tendente al giallo nel caso dei polli ruspanti) ed elastica al tatto.

6. Ultima verifica, che però si può fare solo mentre lo si cucina è la quantità di acqua che perde: se le sue dimensioni si riducono di circa la metà è abbastanza sicuro che quella carne non provenga da un allevamento estensivo.

Comprate dunque sempre con consapevolezza, ne trarrete giovamento voi, i vostri cari e il pianeta su cui viviamo che così generosamente ci ospita.
E ricordatevi che le cose buone a volte richiedono tempo e questo vale anche e soprattutto per le materie prime.

I barbabuc

I regali della Primavera sono tanti, specialmente se si parla di verdure.
Tra i meno noti c’è la Barba di becco o Barbabuc, una pianta spontanea commestibile, piuttosto diffusa sul nostro territorio, facente parte dell’ampia famiglia botanica delle Asteraceae a cui appartengono piante più conosciute come il tarassaco, il cardo mariano o il topinambur.
Si tratta di un’erba nota e usata sin dall’antichità, pensate che una sua raffigurazione si trova persino in un affresco della città di Pompei, disponibile da adesso fino a maggio nei campi di tutta la penisola. Vanta perciò una lunga storia nella tradizione gastronomica delle nostre regioni, tanto che ha molti nomi comuni: a seconda del territorio viene infatti chiamata Salsefica, Baciapreti, Scorzobianca, Barbabuc (in piemonte) anche se il suo nome scientifico è Tragopogon pratensis.
Le radici di barbabuc, simili a carotine, sono la parte più pregiata e ricercata, ma anche le foglie sono utilizzate in cucina.
Il modo migliore di gustare i barbabuc è quello di lessare radici e foglie e condirle con semplice olio extra vergine d’oliva, sale, pepe e aceto balsamico.
Dopo essere stati bolliti o cotti a vapore sono ottimi anche dopo una ripassata in padella, con un po’ di burro o d’olio extravergine d’oliva, oppure come ingrediente per un frittata un pò fuori dal comune.
Le radici si usano anche accompagnandole a creme di formaggio oppure ottime per preparare un delizioso flan.

La radice della barba di becco è inoltre ricca di proprietà benefiche.
Contiene infatti inulina, un prebiotico in grado di sostenere la vitalità e la funzionalità del microbiota.

Ma …dove si trova?
I Barba di Becco si trovano nei mercati rionali ma badate bene, a seconda di dove vi trovate avranno nomi diversi per cui in piemontese si chiamano barbabuch, ma da Nord a Sud si va da basapret, bossiei, erba da lat, sparagi de pra’ al Nord, passando per sessefrica, belle bimbe, papacciole e papaline al Centro, fino a latti d’oceddu, minna di vacca e varva di beccu al Sud e isole.

Uova di cioccolato

La Pasqua è alle porte e le uova di cioccolato, insieme alla Colomba, diventano protagonisti delle nostre tavole.
Ma se per la Colomba il nesso con la Pasqua è immediato... vi siete mai chiesti invece quale sia il collegamento con l’uovo?
Noi si ed ed eccovi la risposta…perché esiste sempre una spiegazione!

L'usanza di regalare le uova a Pasqua è antichissima: l'uovo infatti, fin dall’antichità, aveva un forte valore simbolico legato alla vita e alla rinascita.
Sembra infatti che già gli Egizi considerassero l’uovo un simbolo di vita, in quanto fulcro dei quattro elementi (aria, terra, fuoco e acqua) e perciò origine di tutto. Così come i Persiani che lo consideravano simbolo di prosperità e pare usassero regalarsi uova all'inizio della primavera come segno di rinascita. Una tradizione che sembra fosse diffusa anche nell’Antica Grecia e in Cina, sempre in concomitanza con il cambio di stagione.
Il cristianesimo affianca queste tradizioni e le reinterpreta alla luce delle Nuove Scritture. L'uovo diventa così il simbolo che meglio coglie il significato del miracolo della Resurrezione di Cristo. L'usanza di regalarsi uova si diffonde a partire dal Medioevo, in Germania. La Chiesa proibiva ai cattolici praticanti di mangiare uova durante la Settimana Santa, vale a dire quella che precede la Pasqua. Tutte le uova deposte dalle galline in quei sette giorni venivano dunque conservate e decorate per poi essere donate ai bimbi il giorno di Pasqua.
Tra i nobili e gli aristocratici invece si diffuse l'abitudine di fabbricarne alcune di argento, platino o oro, decorate.

Ma come si passa dalle uova bollite….alle uova di cioccolata?

Sul perché oggi, a Pasqua, si mangino le uova di cioccolato, le ipotesi sono varie. 
L’ipotesi più accreditata vuole che il primo a far realizzare un uovo di cioccolato sia stato Luigi XIV nel 1700, commissionando al suo cioccolatiere personale David Chaillou delle uova a base di cioccolato da regalare per Pasqua al posto delle "solite" uova d’oro.
Nelle intenzioni del re doveva essere l’ennesimo modo per stupire i suoi cortigiani. Nei fatti, la sua estrosa richiesta cambiò a suo modo il corso della storia della pasticceria.
Le prime uova di cioccolato in serie si devono però a John Cadbury che inventò anche il primo uovo di cioccolato con la sorpresa dentro e che nel 1905 introdusse anche le uova di cioccolato al latte.

Come per tutte le invenzioni che hanno spopolato nella storia, in tanti "rivendicano" però la paternità dell'uovo di Pasqua come lo intendiamo oggi.
Diversi libri riportano infatti la storia della vedova Giambone, titolare di una cioccolateria nell’attuale centralissima via Roma di Torino: attorno al 1725 la signora ebbe l’idea di presentare ai suoi nipotini un cestino pieno di paglia e uova di cacao ottenute riempiendo i gusci vuoti delle uova di gallina con cioccolato liquido e miele. Li propose poi nella sua bottega e le neonate uova di Pasqua ebbero talmente tanto successo che man mano diventarono una tradizione destinata ad espandersi a macchia d’olio in tutto il mondo.
Torino, del resto, fu la prima città d’Italia in cui arrivò il cioccolato nel ‘500 portato dalla spagnola duchessa Caterina, moglie del duca Emanuele Filiberto di Savoia, dopo la scoperta dell’America.

Dove stia la verità probabilmente non lo scopriremo mai, l’importante è che questa dolce tradizione sia ancora viva e ben affermata!

Dipping una nuova cultura?

Fare scarpetta con la pizza, ci avevate mai pensato?

La passione (ossessione) per il dipping o per dirla in italiano “per le salse” è una moda che ci arriva da oltreoceano.
Le salse infatti, è risaputo, sono una costante per la cucina nord americana, me ne accorgo ogni volta che facciamo lezione agli studenti americani: in pole position la salsa Sriracha, salsa agrodolce thailandese che se potessero metterebbero anche sul risotto alla milanese (cosa che per altro hanno fatto in un mio momento di distrazione!!)
Questa mania si sta diffondendo anche nella nostra penisola, lo dimostra l’uso sovrabbondante di salse nel mondo dei panini.
Ma quello a cui non eravamo pronti è di intingere la pizza nelle salse…..
In Nord America non vanno tanto per il sottile e già diverse catene danno la possibilità di scegliere tra diverse salse (bbq, all’aglio, ai formaggi,…) in cui intingere la pizza, ovviamente condita, non bianca!
In Italia queste tendenza è stata reinterpreta in maniera intelligente da alcuni pizzaioli che hanno inserito nel menu alcune proposte di intingoli per spingere le persone a non lasciare il cornicione nel piatto.
Un’ottima idea dunque per contrastare l’incultura degli sprechi e invogliare a chi non è abituato a mangiare il cornicione a utilizzarlo come il pane per la scarpetta.